Donne che fotografano la donna intervista per Efrem Raimondi

L’intervista qui di seguito è stata pubblicata il 16 luglio scorso sul Blog di Efrem Raimondi 

Mi era stato proposta da Efrem Raimondi, la partecipazione a questa piccola finestra sul femminile la prima di : 12 fotografe assieme in uno sguardo corale, sulla donna. Riporto di seguito il preambolo perché mi sembra doveroso per poter comprendere a pieno la questione e non divagare sterilmente in voli pindarici sul fatto che esista o non esista uno sguardo di donna sulla donna. Aggiungo che non conoscevo il lavoro delle mie colleghe fin tanto che non è stato pubblicato sul blog, e che personalmente al di là dell’articolo in sé, è stata per me l’occasione di conoscere persone davvero interessanti. Una magnifica opportunità di confronto.

Donne che fotografano la donna …
Perché ho sempre notato, nel confronto, la diversità dello sguardo maschile, che spesso non mi piace.
Non credo esistano differenze se parliamo d’altro.
Anzi nego ci sia un’arte maschile e una femminile. Qualsiasi linguaggio si usi.
Ma se il soggetto diventa la donna, sembrano esserci davvero due mondi distinti.
Due sguardi diversi. Che in fotografia si accentuano.
La cosa che immediatamente noto è il rispetto.
Che è trasversale, cioè indipendente dalla qualità espressiva e dall’approccio.
Potrebbe essere, la donna, tende e fiorellini o puttana di strada, giusto per tirare gli estremi: lo sguardo dell’autrice non è mai volgare.
Non nasconde e non sottende niente.
Semmai è intimo. Semmai è davvero complice.
E il soggetto donna, fosse anche desiderio confessabile solo attraverso il medium fotografico, è sempre ricco di dignità.
E soprattutto è davvero centro dello sguardo.
Tutta. Non sezione carnale simile al naufragio maschile sulla sponda tette e culi. E figa.
Eppure c’è durezza… in alcune autrici c’è.
Ma non trovo rituali cannibali.
Se poi si vuole entrare nello specifico rappresentativo, non vedo idealizzazione.
Non vedo stereotipi tanto presenti nell’iconografia contemporanea, propria soprattutto di molti magazine… che invece mi sembrano attaccati alla parodia monotona della perfezione.
Ma anche fuori dal fotografico, ma che appeal ha una bambolotta di plastica, tutta liscia e tutta panna?
Ma che idea avete del desiderio?
E anche quella rara autrice che emula il trend subculturale mediatico – qualcuna mi capita di intercettarla – si vede che non ci crede.
Ci prova e basta. Poi le viene l’esaurimento nervoso. Garantito.
Credo insomma in uno specifico sguardo femminile sulla donna.
Dal quale dovremmo trarre le dovute conseguenze.
Fossimo anche il direttore della super mega rivista che fa sbalordire il mondo… ma sarà vero poi? – Efrem Raimondi

Qualche precisazione:
  • Nell’articolo originale erano state scelte 5 immagini tra le 10 che avevo proposto. Qui di seguito le ho riportate tutte e 10
  • Come sapete in genere “lavoro” per progetti. In questo caso ho scelto di NON pubblicare un portfolio, né un progetto coerente, ma estrarre le mie immagini dal mio lavoro complessivo perché volevo io stessa capire di più su me stessa, analizzare a posteriori il mio sguardo ed essere onesta con la rappresentazione che faccio della donna “in generale” e non in particolare. Questo perché sarei capacissima data la mia esperienza di photo editor di indurre una visione allusiva o mirata a enfatizzare un aspetto che prediligo. Ho preferito rischiare di apparire incoerente
  • Mi auguro che andrete a guardare anche le altre fotografie delle autrici coinvolte assieme a me e a leggere le loro interviste. Colgo l’occasione per ringraziarle ancora una volta tutte, hanno partecipato: Laura Albano, Silvia Cardia, Monica Cordiviola, Dana de Luca, Isabella De Maddalena, Iara Di Stefano, Benedetta Falugi, Cinzia Garbi, Antonella Monzoni, Maria Serena Patanè, Vanessa Rusci.

 

L’intervista

Trovi che il TUO modo di fotografare le donne abbia qualcosa che lo connota come uno sguardo specificamente femminile? (spiegare perché)

Il mio sguardo è di donna. Come per tutti, ciò che dà connotazione al mio sguardo è frutto di chi sono: di come sono cresciuta e delle mie esperienze. Ma attenzione, non credo siano fattori così comunemente condivisi quanto si è portati a credere. Nel mio caso, ho dovuto mio malgrado rendermi conto che ciò che io ritenevo normale e condiviso non lo è affatto. Alcune vicende che hanno segnato profondamente la mia vita le ho vissute in quanto donna, e quindi il mio sguardo ne è certamente influenzato. Ma se proprio devo essere pignola questo non significa che sia uno sguardo “femminile”. Ed è proprio questo il punto. Il mio sguardo è di donna ma non credo affatto che in genere sia “femminile”. Questo perché non riesco a considerare le persone con cui mi rapporto se non come individui, ognuno con le proprie caratteristiche e quindi ognuno con bisogni di dignità e rispetto diversi. Il genere è solo una delle caratteristiche possibili. In questo senso, sì il mio sguardo di donna sulla donna è estremamente connotato. Il genere è una caratteristica, come gli occhi blu o la pelle delicata come carta crespa. Come tutte le caratteristiche è qualcosa che si può rappresentare in fotografia, con cui si può anche scherzare, sempre che se ne abbia consapevolezza. Come tutte le connotazioni fanno presto a trasformarsi in stereotipi. E anche lo stereotipo, in effetti, è qualcosa che si può rappresentare molto intelligentemente, certo è che più spesso è una comodità che usano i pigri.

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Cosa pensi dello sguardo maschile sul tema Donna?

Credo in parte di aver anticipato cosa penso. Vale esattamente come per me. Io sono conscia di essere cresciuta con modelli di un certo tipo: entrambi i miei genitori hanno sempre lavorato. Mio padre era quello che in casa cucinava, faceva le lavatrici, lavava i piatti; mia madre non ha mai smesso di studiare; lui mi ha insegnato a fotografare, lei a stampare a colori. Le loro foto in quegl’anni hanno talmente tanto in comune che spesso è impossibile distinguere chi ha scattato, forse è persino quasi angosciante.
Ho scoperto che questo non era ciò che accadeva in ogni famiglia quando sono arrivata al liceo ed è stato un trauma. Questo per dire che nelle foto, c’è chi siamo, che tu sia uomo o donna. Ed è bene ricordarselo sempre. Davanti al soggetto arriviamo ognuno con i propri limiti. E certo il genere, in una società come la nostra, è quella diversità a cui veniamo premurosamente educati a partire dal biberon, quindi i limiti ci sono e nelle foto emergono. Ci sono effettivamente sguardi “maschili”, ci sono sguardi stereotipati, sguardi violenti, sguardi arroganti, tanto tra gli uomini quanto tra le donne. E sono sguardi socialmente funzionali. Ne parlerò poco più avanti.

Può sembrare che spesso lo sguardo maschile abbia una connotazione più marcatamente sessista di quello femminile, e probabilmente è vero, ma la diversità è solo nell’evidenza. Trovo che siano ingabbiati in questo dualismo tanto gli uomini quanto le donne.

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E come pensi venga affrontato dai media. Tutti, mica solo i magazine.

Ecco questa è una domanda molto interessante. Perché secondo me questa “necessaria differenza di genere” è fortemente alimentata dai nuovi media, nei magazine quanto nell’advertising, nella comunicazione quanto nell’informazione.

Nella vita mi sono occupata anche di coordinare la comunicazione aziendale, editoriale, nuovi media, e di fare la photo editor. Quindi parto da un punto di vista diverso dal fare fotografia o osservarla sui media. Non posso non considerare che nella situazione attuale tutti i canali di comunicazione hanno necessità di targettizzare i contenuti per categorie in modo da poter “coinvolgere emotivamente” gli utenti a seconda dei loro diversi punti deboli, dei diversi desideri, e dei diversi bisogni. È una storia vecchia. Ma mentre con i vecchi media e la tv, si raggiungevano contemporaneamente persone con caratteristiche diverse, e non bisognava offendere nessuno, con i nuovi media il modo più efficace di comunicare è rendere sempre più nette e circoscritte le categorie, e farle arroccare su se stesse. L’unisex non va più di moda, nemmeno tra le gli uomini e le donne più emancipate. E laddove si vuole introdurre un discriminante per far schierare gli uni e gli altri, viene portato come esempio opposto al dualismo maschile-femminile, l’ambiguità. Niente di più indotto.

Così, è sull’immagine degli uomini e l’immagine delle donne che spesso si gioca una vera e propria battaglia di genere. La conseguenza nelle immagini è che quelle scelte e prodotte rispondono a questa domanda, e non alla professionalità del fotografo nel trattare il femminile o il maschile. Questo accade anche su piattaforme che non sembrano avere attinenza con un sistema di mercato ma rispondere al confronto, il “like” per intenderci. Le immagini che riscuotono maggiore coinvolgimento offrono feedback ai fotografi verso una determinata direzione, ma dipende dalla platea, quindi a seconda del target tendono ad essere costruite sempre più precisamente per quel target.

Il punto è: sappiamo costruire attorno a noi un pubblico tanto vario da garantirci spunti costruttivi diversi, o tendiamo a inserirci in nicchie rassicuranti di persone con gusti simili ai nostri? Accade anche nei circoli fotografici non occorre andare su FB. Se anche vengono prodotte immagini diverse, e vengono prodotte, sono destinate a un pubblico particolare, di nicchia, che non è disposto a farsi inscatolare. Rarità. E la rarità non è utile ai media a meno che non si parli di extra lusso.

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Perché hai deciso di fotografare la donna?

Ho sviluppato progetti legati al superamento della violenza domestica subita dalle donne. Ho ritratto donne e bambine che vorrebbero riconosciuto il loro diritto di cittadinanza essendo nate in Italia. Ho lavorato nell’adv imponendomi di non scendere a compromessi con la stereotipizzazione del corpo femminile. Con questi presupposti avrei potuto estromettermi da molti sistemi, ma per fare la propria parte bisogna mettersi in gioco, e rischiare di non essere compresi. Ho sempre cercato un modo per fare la mia parte mettendo a disposizione le mie capacità. Tante volte ci sono riuscita, altre no. Ho molta strada da fare. Mi sono chiesta spesso come fare e perché. Credo che la risposta ad entrambe sia in una parola: dignità. Nonostante io sia una fotografa, non sono disposta a esporre nessun individuo per denunciare una condizione, tanto meno una donna. Il mio obiettivo è limitarmi a raccontare attraverso le immagini e non a giudicare. Il rispetto della dignità dell’individuo ha sempre guidato il mio sguardo nella rappresentazione ed è di maggior dignità che ha bisogno la donna, come tutti gli individui. Sembra banale, ma l’intento guida lo scatto e soprattutto l’editing. Vedo spesso ottime fotografie che dimostrano invece una violenza insopportabile. La prepotenza del diritto a fotografare qualunque cosa e male per il bene, per ricordo, per documentare, sono scuse. Il fine non giustifica i mezzi. Il bisogno di fotografare tutto e a qualunque costo non mi appartiene, credo che sia anche questa una necessità dettata dall’incapacità di sviluppare empatia con ciò che ci circonda.

L’immagine è uno strumento che viene spesso sdoganato come “normale”, tanto da far passare il messaggio che una fotografia è sempre giustificabile in quanto “vera”, quantunque non mostri altro che mercificazione, denigrazione, umiliazione e mortificazione del soggetto. Per me è una forma di violenza gratuita.

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Nel mondo femminile è diffuso il modo di dire “parliamone da donna a donna”, che presuppone una sorta di complicità: esiste anche nel fotografare?

Si dice anche “da uomo a uomo”. Esiste la complicità, e va piantata, coltivata e guadagnata. “parliamone da donna a donna” è solo un modo per capire a che livello di comunicazione stiamo interagendo. È un modo per sottolineare in un dialogo, “ehi, da qui in avanti sto mettendo a nudo una mia intimità, ho bisogno che tu riesca a calarti nei miei panni adesso, che mi rispetti e che non approfitti di questa apertura”. La complicità richiede un impegno da ambo le parti con l’obiettivo di confrontarsi. Nella fotografia esiste ed è fondamentale. Talvolta si instaura tra il fotografo e il soggetto, nel ritratto ad esempio. Ma capita anche che si instauri tra il fotografo e chi osserva l’immagine, nell’autoritratto. È questione di mettersi in gioco e non è sempre facile o possibile. Talvolta non ci sono proprio le condizioni, ma è un impegno vicendevole, un’esperienza nel quale chi è coinvolto esce con qualcosa in più e non derubato. Nel caso estremo, non viene nemmeno scattata nessuna fotografia, pur rimanendo soddisfatti dall’esperienza proprio perché anche l’altro ne rimane soddisfatto e scattare avrebbe invece spezzato il patto di rispetto. Questo perché, mentre in un dialogo vi sono due individui che si misurano scegliendo un piano comune di comunicazione, nel caso della fotografia, in genere, uno ha la macchina fotografica in mano e l’altro no, l’altro è un concetto astratto potrebbe essere pure un fiore o una casa. La complicità col soggetto è una questione di lenta scoperta e di rispetto totale.

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Hai mai fotografato soggetti maschili? Il tuo sguardo cambia?

A questo punto direi che sono stata fin troppo prolissa, posso solo ribadire di aver fotografato anche molti soggetti maschili. Nonostante alcuni miei progetti siano legati alla donna, mi è capitato spesso di portare avanti di pari passo lo stesso progetto al maschile. I ritratti di uomini per il diritto di cittadinanza. Il lavoro sulla violenza domestica costruito assieme agli uomini. Gli uomini sono parte integrante dei miei lavori fotografici. Il mio sguardo è di donna. E spero di riuscire a non usare una distanza diversa dal solito se guardo un uomo. Ma prendo atto che non so se tra il mio intento e il risultato ci sia sempre una corrispondenza così evidente. Penso lo possano dire solo quelli che osservano le mie foto e non io. Come dicevo prima, fotografo individui, e mi soffermo sulle connotazioni che li caratterizzano non sempre rappresentando tutto quello che li connota. In tutto questo è bene non dimenticare che certo io cerco un rapporto tra individui e non di genere. Ma è certo che se fotografo la persona che mi piace, con cui ho un rapporto più intimo che va ben oltre la complicità, lo sguardo cambia. Ed è giusto così. Le mie immagini sono una parte spontanea di me, non il frutto di un’etica autoimposta. Fluiscono e non pretendo di ingabbiarle. Rispondendo a queste domande ho preso spunto io stessa per spiegarmi molte scelte che non avevo elaborato con chiarezza a priori.

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Immagini e interviste complete QUI: http://blog.efremraimondi.it/donne-sulla-donna-1/